“Scarpe” – Intervista e fotogallery

Intervista a Giorgio Rossi

Quando è nata questa collaborazione con il Collettivo 320chili?

Con 320chili ci siamo incontrati circa 4 anni e mezzo fa, a Torino. Loro fanno circo contemporaneo, mentre io vengo da un conservatorio di mimo e circo, e mi sono diplomato lì nell’ottanta, e quindi ho sempre tenuto dei contatti. E visto che la danza e il circo contemporaneo si compenetrano, è stato naturale incontrarli, ci siamo cercati a vicenda. Infatti c’è stato subito un affiatamento, loro avevano bisogno di essere sostenuti e noi di sostenere. Io avevo delle idee come Scarpe e come altri lavori. Poi a volte mi assegnano dei lavori come quando la regione Toscana aveva bisogno di promuovere l’industria calzaturificia in Russia, e di fatti ho fatto lo spettacolo in Russia e poi dopo è nato Scarpe.

Questo spettacolo è l’insieme di danza contemporanea e nouveau cirque, la mia domanda è molto personale: cosa hanno rappresentato nella sua vita questi due stili?

Adesso ho 53 anni, già nel 1977 quando ho cominciato mi sono accorto che tutte le cose si stavano mischiando, poi sono andato a Parigi e ovunque andavi vedevi coppie miste, cioè l’essere creolo in senso mischiato, che è una cosa abbastanza naturale, è un fatto sociale. E le arti di conseguenza. Diciamo che i campi del movimento di danza e del movimento contemporaneo di circo hanno margini di sviluppo enormi rispetto ad altri campi, come il balletto, che è un codice e una volta che hai girato in cinquanta mila modi quelle modalità lì alla fine ritorni indietro, è un po’ come l’opera, dove si fa il restyling. È un po’ come fossero esauriti non in bellezza ma in novità. E invece la danza ha dei margini pazzeschi e anche il circo. Tutto ciò ha rappresentato per me la vita, faccio questo ormai da 33 anni di mestiere, ed è la mia vita. E cerco di trasmetterlo. Infatti questo è uno spettacolo leggero, fatto con gioiosità e giocosità, per trasmetterlo al pubblico. E non c’è neanche la pretesa di trasmettere chissà quali concetti nascosti, perché quello che si vede è quello che è. Di solito lo facciamo per i ragazzi delle scuole, a tutti i livelli, dalle materne alle superiori, e reagiscono subito. La gente si accattiva subito, perché c’è abilità, gioco, scherzo, leggerezza.

Cosa direbbe ai giovani che vogliono intraprendere il suo percorso?

Beh bene! È faticoso, come tutte le forme di lavoro. Perché credo che il muratore si fa un bel mazzo e anche qui ci si fa un bel mazzo, nel senso che bisogna studiare, studiare e studiare. Però la differenza è che forse qui c’è essere l’anima, il senso e l’arte che non è poco. È un lusso. Quindi è una fatica anche ben ripagata, sul piano etico e sensuale, poi magari pagata meno sul piano monetario. Ma devo dire che noi l’abbiamo scelto non per i soldi ma per amore.

“Scarpe” è nato da “Steps” come diceva in precedenza. Che significato assumo le scarpe in questo spettacolo?

Allora io feci un primo spettacolo nel 1992, dove c’era un pianista e tre danzatori. Iniziavamo con un sacco di scarpe, che avanzavano “alla tedesca”, come nei film gialli. E poi piano piano venivamo fuori uno alla volta, però ne rimanevano una dozzina di paia. Tra l’altro molte di quelle scarpe le abbiamo riutilizzate in questo spettacolo, cioè Scarpe. Comunque mi sono sempre piaciute le scarpe, già a 16 anni mi compravo le scarpe strane, colorate, buffe. Ho sempre apprezzato la scarpa come oggetto, come ad altri piacciono i cappelli, le giacche o i cappotti. A me piacciono le scarpe, come milioni e milioni di persone, nulla di originale se non un fatto di gusto personale. E quindi con le scarpe ho una certa agilità nel giocarci. Inoltre secondo me sono testimoni della nostra vita, stanno nascoste per anni e poi magari uno le ritrova anni dopo e magari dice “Oh cavolo quelle scarpe lì, le usavo quando avevo 18 anni!”. C’è chi le tiene, io le tengo proprio per questo.

(Fotografie di Erica Spadaccini)

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