Teatro delle Albe: intevista a Roberto Magnani e fotogallery

Dov’è nato “Odisèa-lettura selvatica” e quale idea ha dato vita a questo spettacolo?

E’ nato in Sardegna a Seneghe dove si svolge il Festival “Settembre dei Poeti”. Sono stato chiamato a leggere delle poesie di Raffaello Baldini, dove ho conosciuto Paolo Nori. Qui sono nate la voglia e l’idea di fare un lavoro individuale nel quale utilizzare il dialetto come lingua di scena. All’inizio il progetto doveva prendere la forma di un’antologia dei grandi poeti romagnoli, poi si è trasformato nella sola lettura dell’Odisèa di Tonino Guerra.

Non crede che un dialetto così stretto possa isolare la platea dal succo dello spettacolo?

Come Compagnia abbiamo fatto “L’isola di Alcinaa”, uno spettacolo tutto in dialetto romagnolo, forse ancora più stretto di quello di Odisèa, e l’abbiamo portato ovunque, anche a New York e Mosca, eppure ha sempre avuto un successo clamoroso. Ad esempio quando si va all’opera ad ascoltare Wagner in tedesco, cosa si capisce? Tutto. Non è solo nella parola e nel linguaggio la sola via per comprendere.

Quanto è contemporanea la storia dell’Odissea?

E’ sempre contemporanea perché è la storia di un reduce, di un uomo che vuole tornare a casa dopo una guerra. In particolare, in questa riscrittura di Tonino Guerra, viene fuori una contemporaneità legata alla terra. Sparisce l’aurea mitica del racconto per lasciare spazio ad una consistenza più vera. Si parla di uomo che torna a casa e ha a che fare con delle cose estremamente concrete. Non sarebbe una storia che ha trapassato i secoli, se non contenesse una contemporaneità che non si distrugge mai. Proprio per questo è un grande testo classico: sa viaggiare nel tempo.

Ha un particolare significato l’inizio della rappresentazione col buio?

Per il Teatro delle Albe il teatro ha a che fare col sogno. Ci piace pensare al teatro come quel momento di dormiveglia in cui ci si sta svegliando ma ci sono ancora quei sogni che confondono la testa, perciò non si riesce a capire se le cose sognate fossero vere o meno: è una terra di limite. In questo spettacolo si parla di fantasmi, spettri perciò è questa l’idea che si vuole dare, come se fosse un sogno. Sebbene l’attore sia in carne ed ossa, incarna la figura del fantasma. Questo buio era un accompagnare il pubblico ad entrare in una terra di sogno.

Perchè ha deciso di utilizzare il dialetto per uno spettacolo?

Qual è la lettura che da? In realtà con questa lingua è come indossare una maschera. E’ dialetto, ma è una lingua, una lingua di scena. In Italia i dialetti di scena sono il veneto di Goldoni e il napoletano di De Filippo. La compagnia delle Albe, “i miei fratelli maggiori”, da anni lavora sul dialetto facendolo diventare lingua di scena, proprio appoggiandosi ad una schiera di nuovi poeti venuti fuori dopo Tonino Guerra dalla Romagna. Quando si parla di creare un personaggio, si intende costruire una maschera. Il dialetto, avendo io la possibilità di utilizzarlo perché provengo da un paese di campagna della Romagna, mi ha dato proprio l’occasione di costruirmi una maschera.

Il Teatro della Albe realizza e porta avanti con diverse scuole laboratori teatrali intitolati “Non Scuola”. Avete utilizzato anche con i giovani questa lingua?

Noi usiamo sempre il dialetto, ma non solo romagnolo: tutti i dialetti. La prima cosa che chiediamo al primo incontro sono le lingue e i dialetti, chi li sa parlare. E’ ricchezza linguistica. In uno spettacolo del laboratorio Non Scuola siamo in grado di mischiare tantissime varietà linguistiche. Nell’Ubu che abbiamo portato in scena c’erano l’italiano “sporco”, dato che non recitavamo in dizione, il dialetto romagnolo purissimo della campagna e addirittura il dialetto senegalese. E’ un brulicare di lingue. Sul palco è possibile fare questo e secondo noi è anche bello. E’ certamente la prima cosa che chiediamo anche perché oggi nelle scuole ci sono molti studenti stranieri. Adesso stiamo facendo un progetto a Venezia dove lavoriamo in diverse zone della città. In periferia la maggior parte sono stranieri: nigeriani, moldavi, turchi.. è una cosa bellissima. In centro, invece, sono tutti tipici cognomi del capoluogo veneto. Anche loro sono bravissimi: ognuno è particolare a suo modo.

Riguardo i dialetti, lingue che caratterizzano il nostro Paese, si ha il timore che si estinguano a causa del trascorrere delle generazioni. Sarebbe grave questo? Cosa perderebbe l’Italia?

Credo sarebbe una perdita grave, come ogni perdita lo è. Però allo stesso tempo non credo possa trattarsi di una vera perdita. Nulla si crea, nulla si distrugge. Credo piuttosto che qualcosa si possa trasformare. Si può lavorare con un dialetto purissimo, però ad esempio c’è un poeta, Giovanni Nadiani, che scrive sul fatto che un dialetto così remoto ormai non esiste più, è una menzogna. Tant’è vero che io ho dovuto recuperarlo attraverso i poeti, non si parla più così, nemmeno a casa. Lui, allora, ha iniziato a scrivere poesie e monologhi teatrali mettendo nel dialetto tutti i nomi inglesi di uso oggi comune oppure descrivendo situazioni contemporanee: una cinese che lavora al Mc Donald oppure un anziano russo che con la sua badante ucraina guarda il Grande Fratello. E’ come un imbastardimento del dialetto, perché in realtà si sta modificando. E’ una lingua viva, non è morta. E’ viva perché si modifica.

HowL  – La redazione

Foto di Pietro Magnani e Irene Ferri

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